Legal design summit 2023: un bilancio

I talk più interessanti del legal design summit 2023

Il legal design summit a cui ho assistito a Helsinki il 14 e 15 settembre 2003 è stato quello della maturità, del passaggio all’età adulta. Il summit del 2019, l’ultimo prima della pandemia, era come un adolescente pieno di sogni e belle speranze ma che non sa ancora bene cosa fare nella vita.
Quest’anno, invece, ho assistito a talk più concreti che hanno affrontato progetti, problemi e soluzioni di estremo interesse, sia nel settore privato che in quello pubblico o comunque in ambito sociale. 
Questo mix di interventi da parte di professionisti/e provenienti da tutto il mondo ha mostrato come i campi di applicazione del legal design siano molteplici, a differenza, ahimè, di quanto si continua a credere in Italia. Ecco alcuni dei talk più interessanti.

pass legal design summit

I miti del contract design

Molto concreto e dritto al punto è stato l’intervento di Stefania Passera, che ha sfatato alcuni miti del contract design. Ci ha ricordato, ricerche alla mano, che la complessità dei contratti spesso deriva non dal contenuto (tecnico) in sè quanto dal modo in cui sono scritti; che non necessariamente bisogna ricorrere ad elementi visuali per chiarire il contenuto.
Aggiungo: che non necessariamente una immagine vale più di mille parole; piuttosto mille parole scritte bene valgono più di una immagine (o un’icona o un grafico, fate voi) poco comprensibile.
Stefania ha anche evidenziato, con alcuni esempi di suoi progetti, che non è vero che il contract design sia limitato ai contratti b2c o a quelli di lavoro. 

Legal design e ufficio legale interno

Lina Krawietz e Alisha Andert (Germania) hanno parlato del loro lavoro per Hugo Boss. Una campagna di social marketing che recluti un gran numero di influencer (e non solo) significa dover negoziare tanti contratti in poco tempo. Come rendere più veloce il ciclo contrattuale? Come rendere più facile la vita al dipartimento marketing e a quello legale? Prima di tutto analizzando e ricostruendo da zero un processo contrattuale che in Hugo Boss prevedeva decine di passaggi da un ufficio all’altro prima di arrivare alla firma. Infine, è stato reso più chiaro il contratto finale. Tutto ciò ha portato a una consistente riduzione del tempo necessario per arrivare a firmare il contratto con l’influencer. A proposito di ROI del legal design.  

Legal design e open government

Quando nel 2010 vicino alla baia di Sydney era stata aperta una nuova miniera, la comunità locale rimase sorpresa: non era stata consultata né informata dalla società responsabile dell’estrazione. La mancanza di comunicazione e trasparenza nel prendere una decisione di enorme impatto sul territorio è stata la molla che ha spinto Mel Flanagan, con il suo Nook studios, a creare Common Ground. Si tratta di una piattaforma online progettata per aiutare le persone ad accedere facilmente alle informazioni sulle attività minerarie nella propria area: tra le altre cose, viene monitorato e spiegato il  processo di approvazione della licenza mineraria e la licenza stessa, sono indicati i soggetti coinvolti e i report ambientali pubblicati. Una buona pratica di open government che è anche un ottimo esempio del grande impatto sociale che può avere il legal design. Non a caso il titolo del talk di Flanagan era “Visualizing Laws for clarity, connection and collaboration”.

Lawtoons: educare con i fumetti

A proposito di impatto sociale è d’obbligo citare l’intervento di Kanan Dhru: ci ha parlato della pubblicazione, in collaborazione con il governo indiano, di una guida a fumetti che spiega come funzionano le elezioni politiche alla popolazione meno istruita.  Mi ha fatto venire in mente il contratto di lavoro a fumetti creato da Robert de Rooy in Sudafrica e le alzate di sopracciglio che ha provocato qui in Italia (ma come un contratto a fumetti!?!) da parte di chi non sa che design significa creare prodotti ritagliate sui bisogni e, in questi casi, sul livello di alfabetizzazione delle persone a cui quei prodotti sono destinati.

Legal design e innovazione sociale

A proposto di quanto sia fondamentale conoscere il contesto in cui si progetta, cito altri due talk. 

Il primo, di Zainab Malik di HiiL che ci ha parlato dei Justice Innovation Lab messi in piedi in Tunisia, Nigeria e Uganda per favorire l’accesso alla giustizia da parte della fascia di popolazione meno abbiente e istruita, ad esempio nei casi di violenza domestica.
Innovation ≠ tech, ha sottolineato. Specie in un paese come l’Uganda in cui proporre soluzioni tech non ha senso, dato che la stragrande parte della popolazione non ha accesso a internet. 
Solo un processo di design che coinvolga le persone interessate da un problema può produrre soluzioni utili per quelle persone, ha affermato. Come pure, “data is the starting point of justice”. Non è stata la sola, anzi, ad evidenziare l’importanza di progettare soluzioni fondate sui dati quantitativi e qualitativi. 

Il secondo talk che cito è quello di Ebru Metin, intitolato “Legal design for social innovation”. L’avvocata turca ha parlato del suo progetto, vincitore di un bando dello UNDP, che aveva lo scopo di rendere consapevoli le donne turche dei propri diritti in caso di violenza domestica. Le interviste agli stakeholders ha fatto emergere che specie nelle aree meno sviluppate del paese, in famiglia esiste solo uno smartphone, detenuto dal capofamiglia (non uso questa espressione a caso): impensabile quindi sviluppare ad esempio una app per informare le donne. Ribadisco: è importante conoscere il contesto in cui si progettano soluzioni.

Design partecipativo

L’americana Hallie Jay Pope ha espresso la sua visione radicale del legal design, in cui il ruolo dell’avvocato è quello di aiutare le comunità svantaggiate a organizzarsi da sé per smantellare il sistema esistente e crearne uno più equo. Trasferire il potere a queste comunità può avvenire tramite il design partecipativo, ossia coinvolgendo le comunità interessate dal problema. Il solo fatto di partecipare a questo processo, di prendere coscienza del problema, dei propri diritti e delle possibili alternative è per tali comunità di per sé un risultato molto importante. Dalla informazione e dalla consapevolezza dei propri diritti passa il loro riscatto. Formare legali che abbiano un approccio collaborativo è indispensabile: anche per questo tiene laboratori di design presso le facoltà di giurisprudenza in Utah e New Jersey. 

Personalmente ho apprezzato il suo sottolineare la necessità che i legali siano educati al design sin dall’università. Ormai, dopo diversi anni che faccio formazione in legal design a legali più o meno giovani, ho raggiunto una conclusione: che sarebbe molto più proficuo formarli proprio sin dall’università.

E per finire: service design e immigrazione

Nel talk intitolato “From partecipazione to policy. How design helps citizens shape immigration”, Salgado ci ha parlato della sua esperienza da service designer al ministero dell’interno finlandese. Si possono costruire policy in materia di immigrazione con un processo partecipativo, coinvolgendo la popolazione? Sì, è la riposta. Dati qualitativi, ottenuti intervistando la finlandesi e migranti, che aiutano a formulare una proposta legislativa fondata sulla realtà del fenomeno migratorio. Un faro in questi tempi bui, dove si elaborano norme disumane e inefficienti a colpi di tweet.

Conclusione

Tanti ambiti di applicazione del legal design, tanti spunti per iniziative replicabili in Italia. Dove, convenivo con gli altri partecipanti italiani al Summit (non più di una decina), il bicchiere è mezzo pieno: di legal design si parla sempre più spesso nelle aziende e nelle università. Il guaio è che se ne parla quasi sempre in maniera approssimativa. È nostra responsabilità fare passare il messaggio corretto, fare capire meglio obiettivi, strumenti e possibilità del legal design per non banalizzarlo.

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